Già nel post precedente, riflettendo sul concetto di pubblico cinematografico, si era sfiorato un tema altrettanto insidioso: divertimento e intrattenimento. Due termini questi ultimi che, presi così senza ulteriori chiarimenti, sono sfuggenti e vengono spesso utilizzati in maniera univoca, come se avessero un significato esclusivamente positivo. Il verbo divertire, però, ha anche altri significati ovvero distogliere, allontanare, volgere altrove; e intrattenere ha tra i suoi significati figurati anche quello di conservare, mantenere.
È sconcertante come queste due parole vengano utilizzate con superficialità quando si parla di cinema, musica o letteratura, non solo da parte di persone che non se ne occupano correntemente, ma perfino di chi se ne interessa per professione o per passione.
Limitandoci per ora al cinema, cosa intendiamo quando diciamo che un film è divertente o intrattiene?
Per molti spettatori, “divertente” diviene sinonimo di comico (inteso come qualcosa che suscita la risata, il che sarebbe tutto da discutere); altri potrebbero servirsene per indicare uno spettacolo che li ha allontanati per alcune ore da (pre)occupazioni più serie e redditizie. Di per sé due risposte ovvie, condivisibili, in linea con l’aspetto più “positivo” del termine, ma dettate dal fatto che nel circuito della distribuzione è possibile trovare una vasta scelta di opere cinematografiche che tuttavia non coprono l’intera produzione, bensì tutto ciò che viene prodotto dalle case cinematografiche economicamente più forti o più abili nel pubblicizzare i loro film; risposte che rivelano, non di rado, il fatto che il fruitore dispone di una libertà molto limitata di scegliere. Nel senso comune tutto ciò che non rientra in tale circuito viene a priori considerato come noioso, snob ed elitario dato che non ha riscosso un vasto successo di pubblico, non tenendo conto del fatto che spesso al pubblico non ci arriva. In realtà questo concetto si potrebbe facilmente ribaltare in quanto gli spettatori sono oggetto delle decisioni di un’élite che si arroga il diritto di orientarne e selezionarne il gusto. Orientare il pubblico, più precisamente, verso prodotti che ripropongono, conservandoli praticamente invariati, forme e modi di racconto cinematografico, a prescindere dal giudizio più o meno buono che si potrebbe dare del singolo film. O si pensi all’uso limitativo, soprattutto nel cinema americano, o “americanizzante”, che si fa delle tecniche digitali. Da anni si fa un gran parlare del digitale come il futuro del cinema, ma viene esclusivamente inteso come computer grafica per ottenere migliori effetti speciali (mentre a dominare è ancora la pellicola), sennonché è un viaggio verso il futuro solo apparente, dato che si parla di un evoluzione puramente tecnologica, che raramente esplora le possibilità narrative e formali offerte dal digitale.
Generalmente le sale cinematografiche, specie in provincia, e non solo i multiplex, sono monopolizzate dai film più pubblicizzati, siano essi hollywoodiani, europei, asiatici; in altre parole, chi può dire che un film di valore che non ha avuto la stessa eco, godendo di una distribuzione paritaria rispetto a questi, non avrebbe potuto ottenere un buon successo e dunque essere anche considerato divertente da un pubblico più vasto?
È sconcertante come queste due parole vengano utilizzate con superficialità quando si parla di cinema, musica o letteratura, non solo da parte di persone che non se ne occupano correntemente, ma perfino di chi se ne interessa per professione o per passione.
Limitandoci per ora al cinema, cosa intendiamo quando diciamo che un film è divertente o intrattiene?
Per molti spettatori, “divertente” diviene sinonimo di comico (inteso come qualcosa che suscita la risata, il che sarebbe tutto da discutere); altri potrebbero servirsene per indicare uno spettacolo che li ha allontanati per alcune ore da (pre)occupazioni più serie e redditizie. Di per sé due risposte ovvie, condivisibili, in linea con l’aspetto più “positivo” del termine, ma dettate dal fatto che nel circuito della distribuzione è possibile trovare una vasta scelta di opere cinematografiche che tuttavia non coprono l’intera produzione, bensì tutto ciò che viene prodotto dalle case cinematografiche economicamente più forti o più abili nel pubblicizzare i loro film; risposte che rivelano, non di rado, il fatto che il fruitore dispone di una libertà molto limitata di scegliere. Nel senso comune tutto ciò che non rientra in tale circuito viene a priori considerato come noioso, snob ed elitario dato che non ha riscosso un vasto successo di pubblico, non tenendo conto del fatto che spesso al pubblico non ci arriva. In realtà questo concetto si potrebbe facilmente ribaltare in quanto gli spettatori sono oggetto delle decisioni di un’élite che si arroga il diritto di orientarne e selezionarne il gusto. Orientare il pubblico, più precisamente, verso prodotti che ripropongono, conservandoli praticamente invariati, forme e modi di racconto cinematografico, a prescindere dal giudizio più o meno buono che si potrebbe dare del singolo film. O si pensi all’uso limitativo, soprattutto nel cinema americano, o “americanizzante”, che si fa delle tecniche digitali. Da anni si fa un gran parlare del digitale come il futuro del cinema, ma viene esclusivamente inteso come computer grafica per ottenere migliori effetti speciali (mentre a dominare è ancora la pellicola), sennonché è un viaggio verso il futuro solo apparente, dato che si parla di un evoluzione puramente tecnologica, che raramente esplora le possibilità narrative e formali offerte dal digitale.
Generalmente le sale cinematografiche, specie in provincia, e non solo i multiplex, sono monopolizzate dai film più pubblicizzati, siano essi hollywoodiani, europei, asiatici; in altre parole, chi può dire che un film di valore che non ha avuto la stessa eco, godendo di una distribuzione paritaria rispetto a questi, non avrebbe potuto ottenere un buon successo e dunque essere anche considerato divertente da un pubblico più vasto?
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